Metabasis N. 36
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Recensioni
Antonio Bresciani, Lionello o delle Società Segrete, a cura di Moreno Neri, Nota bio-bibliografica e Postfazione di Virginio Paolo Gastaldi
Raffaelli Editore, Rimini, 2005, pp. 5-344, € 20
Claudio Bonvecchio
Ad onta dei giudizi stilistico-storici di Benedetto Croce e di quelli ideologico-politici di Antonio Gramsci, padre Antonio Bresciani S. J. mostra, tuttora, un qualche interesse. Rappresenta – se non altro – un interessante esempio di retorica ottocentesca, chiesastica ed antipatriottica, cui faceva da contraltare una non meno stucchevole retorica anticlericale e risorgimentalistica.
Oggi fortunatamente – come mette in rilievo nella sua acuta Postfazione Virginio Paolo Gastaldi – il quadro culturale è profondamente mutato, facendo sì che ci si possa accostare al romanzo di padre Bresciani senza tema di passare per gesuita o massone: a seconda dei casi e degli ambienti. Semmai, si può essere giudicati meritevoli per l’abnegazione, la pazienza e il coraggio con cui si scorrono le pagine – talora frizzanti ma per lo più grevi – di questo gesuita, intelligente comunicatore e acuto propagandista dei suoi valori: anche se, troppo spesso, in malafede.
Il bersaglio privilegiato (e ossessivo) di padre Bresciani – da cui brescianesimo – sono, infatti, le Società Segrete: la Carboneria, la Giovane Italia e, naturalmente, la Libera Muratoria. Tuttavia, come supporto per il suo livore di legittimista, conservatore e anti-liberale non utilizza gli strumenti “classici” della reazione del suo tempo. Nulla, insomma, ha a che vedere con le cupezze teoriche di un Donoso Cortes o con la lucidità teorica di un de Maistre. Per mettere in guardia giovani e meno giovani dalle Società Segrete – “sentina” di ogni disordine morale – si serve della letteratura e dello stile romanzesco. È uno stile esplicitamente (e parossisticamente) romantico che – malgrado l’antiromanticismo professato dal Bresciani – del romanticismo possiede molte caratteristiche: dalle “atmosfere” gotiche alle descrizioni leziose e bucoliche della natura, dall’impianto del Bildung Roman alle sventure famigliari, dagli inserti di “cappa e spada” all’introspezione soggettiva e così via. In più ci mette, però, un gran guignolismoante litteram ed un compiacimento estetico-decadente che non sarebbe dispiaciuto a Huysmans. Tutto ciò è funzionale a confezionare un “prodotto” certo ostico e farraginoso per il lettore moderno, ma che si presenta sicuramente accattivante, fascinoso e, comunicativamente, intrigante per quello a lui coevo. In questo lo aiuta la trama – almeno apparentemente elementare – in cui un giovane (ovviamente) nobile, ricco, bello e pure generoso viene traviato da cattive compagnie, da amici malvagi e da frequentazioni pericolose e spiritualmente sospette. Complice il lassismo del tempo, l’ideologia illuminista e l’onnipotente presenza di Satana, il protagonista – Lionello – si travia irrimediabilmente, finendo nelle grinfie delle aborrite (da padre Bresciani) Società Segrete: le già citate Carboneria e Giovane Italia, alle cui spalle s’intravvede la malvagia presenze della Massoneria. Esse, ovviamente, sono “infettate” – e qui l’influenza di Barruell è esplicita – dall’esempio nefasto dell’Ordine degli Illuminati di Baviera e del “sulfureo” Weishaupt: concepiti acriticamente come la “minaccia del secolo” e come la forma attualizzata delle più antiche e perverse eresie gnostiche e templari. In un drammatico crescendo di orrendi crimini commessi dal depravato Lionello si giunge – in fine – all’epilogo “faustiano” della vicenda: il suicidio del protagonista, solo e disperato, in una squallida camera d’albergo.
In questo scenario barocco e orrifico (e per questo pedagogico), padre Bresciani si muove con consumata e provetta abilità, evocando scene da “sabba”che sembrano anticipare i deliri demonico-massonici di Leo Taxil: di qualche decennio posteriori. Con fantasia sfrenata, minuziosità inquisitoriale e sensibilità da anatomo-patologo, padre Bresciani racconta di presenze e patti diabolici, cannibalismi ed omicidi rituali, orge di sangue e crudeltà. Sono tutti messi in conto alle Società Segrete che vengono presentate come vere e proprie “sinagoghe di Satana”: anche se ammantate dai “veli” della cultura illuminista.
Di fronte a questo apparato da “film dell’orrore”, verrebbe spontaneo – di primo acchito – di archiviare i deliri antimassonici e l’esasperato conservatorismo del Bresciani negli psicologismi di una epoca contraddittoria, non oggettiva, polemica a dismisura e di “torbido” sentire. In realtà, il “brescianesimo” rappresenta qualcosa di più interessante ed inquietante. Rappresenta, infatti, per un verso l’ansioso ripiegamento su di sé di un mondo fragile ed insicuro: un mondo che non osava misurarsi con la crisi dei suoi valori e con le dinamiche socio culturali che ne erano causa e moltiplica. E che, per questo proiettava acriticamente, come un ombra, le sue paure sulle Società Segrete. Società Segrete, a loro volta, che – se di questo nuovo che avanzava erano le punte più audaci – in realtà concordavano, assai più di quanto potesse immaginare il Bresciani, su molti di quei valori di cui voleva ergersi difensore. Dall’altro verso, il “brescianesimo è indicativo di un atteggiamento che tende, costantemente, a riprodursi: indipendentemente dalle epoche e dalle culture e quindi dal “brescianesimo” stesso. È quell’atteggiamento “debole” che preferisce demonizzare il supposto avversario piuttosto che affrontarlo con le armi della dialettica, dell’intelligenza e della tolleranza. Virtù queste che sono estranee a padre Bresciani che preferisce la politica dei “colpi bassi”, l’arma della menzogna, l’arte delle allusioni, e la pratica delle insinuazioni e del discredito: utilizzando, con ciò, ogni possibilità, anche quelle teoricamente poco significative e culturalmente improprie. In questa direzione, padre Bresciani è un interessante anticipatore di quella che sarà – indipendentemente dall’antimassonismo – il polemismo politico (e culturale) del novecento: un polemismo non più indirizzato a pochi sapienti ma alle masse. Si tratta di un polemismo – simile a quello confuso e confusionario del Bresciani – che non è più sorretto da una robusta cultura, ma solo dal desiderio di stupire, che non utilizza il ragionamento ma solo facili immagini e immediate suggestioni: destinate a colpire la fantasia più che a far pensare. In questo, padre Bresciani – con la disinvoltura di un moderno scrittore di fantasy –accosta il vero ed il falso, interpreta la storia, attribuisce patenti e, purtroppo, colpe e responsabilità.
Indagare la natura di siffatto stile in cui insicurezza, ipocrisia, buona (qualche volta) e cattiva fede (più spesso), violenza verbale e sottigliezza propagandistica si mescolano insieme è, pertanto, particolarmente utile. Serve, certo, a comprenderne il significato recondito, ma anche a capire un meccanismo – quello del “capro espiatorio” – che è scattato molte volte e che è destinato, drammaticamente, a scattare ancora. Dovrebbe servire anche – si spera – ad evitarne la ripetizione.
È merito, dunque, del curatore Moreno Neri aver riproposto il romanzo di padre Bresciani – all’epoca largamente diffuso (fu pubblicato a puntate sulla rivista “Civiltà Cattolica”ed in seguito, come libro, ampiamente tradotto in Francia ed Inghilterra e più volte ristampato) – ma che, oggi, è di difficile reperibilità. Ed è merito di Virginio Paolo Gastaldi averne illuminato il contesto storico-teorico nella sua Postfazione. Diverrà merito del lettore – se lo farà – leggerlo con intelligente attenzione: non per deprecare, ma per imparare come non si deve cadere nel “brescianesimo”.
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